Le manifestazioni di cittadini sono ormai quotidianità: tutto parte dalla proposta di tassare Whatsapp e Facetime, ma le ragioni sono molto più complesse.
Beirut da giorni è una città sconvolta dalle manifestazioni dei cittadini libanesi. Tutto parte della proposta di tassare Whatsapp e Facetime (e già i prezzi della telefonia in Libano sono altissimi). Ma è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha portato migliaia di persona nella grande Piazza dei Martiri che ricorda la sanguinosa guerra civile degli anni tra il 1975 e il 1990. Una piazza simbolo per la città.
La crisi attanaglia il Paese dei Cedri da anni ma si è fatta sempre più grave anche con la guerra in Siria ed in Iraq che ha visto arrivare nel piccolo paese milioni di profughi (circa la metà della popolazione effettiva). La disoccupazione, le diverse etnie presenti – ricordiamo solo che ci sono ben 18 diverse confessioni religiose – i campi profughi, la presenza di Hezbollah, le frizioni geopolitiche di tutto il Medio Oriente sono solo alcune delle cause di queste proteste. Giornalisti, scrittori, intellettuali sono in piazza con la popolazione. Bandiere e canti. Ma anche morti e feriti.
Una rivolta che riguarda il benessere sociale e la sanità
Omar Nashabe, analista dei diritti umani, giornalista e professore alla American University di Beirut, così descrive quello che sta succedendo in questi giorni: “Questa è una reazione delle persone alle affiliazioni politiche. Una rivolta che riguarda il benessere sociale, la sanità, i beni di prima necessità, le infrastrutture. Per molto tempo i governanti hanno fatto promesse su promesse, chiedevano più tempo. Per la prima volta in Libano che c’è una rivolta di questo tipo e cioè per il sostentamento quotidiano. Le persone si sono ribellate al seme della corruzione. Il gap, la disparità tra ricchi e poveri è così forte ed è diventata sempre più grande e questo ha fatto esplodere tutto. Il governo vuole aumentare le tasse, è corrotto mentre manca un sistema scolastico pubblico, un sistema sanitario e questo ha portato le persone ad andare dove non erano mai andate prima. Le persone stanno rifiutando i loro leader mentre fino a poco tempo non si poteva parlare di loro perché erano forti ed influenti e il popolo aveva paura”.
“Ma adesso – continua il docente – è sparito tutto, in piazza i leader vengono anche insultati ed è la prima volta. Tutte le donne, le insegnanti, tutte le persone considerate dedite alle famiglie sono scese in piazza. Tutti i partiti hanno promesso ai loro elettori che le cose sarebbero migliorate. E alla fine gli elettori si sono ribellati. Non c’è un leader che muove le persone. Sono le persone stesse il leader di questa rivolta. Sono spontanee, non sono organizzate. Stanno esprimendo la loro rabbia contro il sistema politico, contro tutti i partiti. Questo significa che ogni libanese, uomo o donna, ha abbandonato i propri riferimenti politici, le proprie affiliazione e dice che importante sono il pane, la scuola, la sanità più dei partiti. Questo è quello che sta succedendo oggi”.
La poetessa ed attivista Joumana Haddad, candidata nelle elezioni di maggio 2018, è scesa in piazza. Attraverso le sue foto e le dirette Facebook fa conoscere al mondo la situazione della sua gente. La giornalista Rima Karaki, lei che tolse la parola in tv ad uno sceicco che non rispettava il suo ruolo di donna e conduttrice, dice che “il popolo libanese è testardo e si riprenderà la sua dignità”.
In un Medio Oriente percorso da nuovi venti di guerra e da evidenti nuove spartizioni in atto la rivolta libanese è la fotografia di un territorio da sempre meta di affari di personaggi internazionali spesso poco limpidi, di traffici di armi, di spie e doppi giochi.
Una capitale, Beirut, dove incontri bancomat ad ogni palazzo e il numero delle banche è forse maggiore di quello di altri esercizi commerciali. Una città dove ancora ci sono i blocchi di cemento dei check point della guerra civile perché come dice un abitante: “Non si sa mai! servono da monito. Qui da noi si vive sapendo che la mattina dopo puoi essere in guerra”. Una capitale che ospita dal 1942 i profughi palestinesi, che ha visto le atrocità di Sabra e Chatila, che ha accolto i profughi siriani e iracheni. Una capitale e un territorio che hanno fatto gola a molti e che sono stati la via di passaggio o anche la base per le varie politiche “globali”, e conseguenti ricadute sulle popolazioni, del Medio Oriente.
Se il Libano brucia e si destabilizza, se in Siria ci saranno, come evidente nuovi equilibri, mentre in Israele ancora non si riesce a formare un governo, chi ci guadagnerà nello scacchiere mondiale? Servirà a ridare forza al terrorismo che si chiami Isis o altro?
(Pubblicato su Tiscalinews il 22 ottobre 2019)