Otto anni fa. Roma, un bar nelle vicinanze della RAI. Una ragazza siede, per terra, all’angolo di un portone. Un fagottino stretto tra le braccia e un bicchiere di carta affianco a lei. Una delle tante persone che chiedono l’elemosina. Roma ne era già piena allora. E’ giovanissima, due occhi vividi, il vestire pulito ed ordinato anche se estremamente povero. Forse è quello che mi induce a fermarmi e lasciarle qualche spicciolo. La ritrovo lì nei giorni seguenti. Diventa amica di tutte le persone che frequentano il bar e la strada. C’è chi gli porta i pannolini per la bambina, chi qualche abito dismesso, chi gli omogeneizzati o un po’ di pasta. Lei ti ringrazia con il suo sorriso da bambina. In questi otto anni ci siamo incontrare su autobus, per strada, sotto la pioggia o sotto il sole. Se non la vedevo veniva a salutarmi ma non per avere spiccioli ma per il desiderio di raccontarmi cosa stava facendo. E così è successo qualche giorno fa. Salgo in autobus e lei è lì. Mi saluta e mi racconta le ultime sui suoi figli. Sono tre adesso. Francesca, la più grande, è il fagottino che ho intravisto otto anni fa. Sono tutti in Romania e così mi racconta il cruccio di una mamma lontana dai suoi piccoli. L’ultimo ha fatto il vaccino e ha avuto una reazione allergica e lei soffre a star lontana. Ha ancora gli occhi di una bambina ed è contenta perché il marito ha finalmente avuto la carta di identità italiana e adesso può lavorare in regola. Mi dice “ se non ci foste stati voi non avrei potuto crescere i miei figli. Francesca è andata a scuola ha imparato a scrivere e leggere. Adesso sono in Romania ma spero di farli tornare presto qui”. E poi mi racconta del marito che adesso può lavorare e essere messo in regola e mi dice “Pensa avere 30-40 euro al giorno. Quante cose si possono fare con tutti quei soldi, quante cose posso comprare per i bambini”.Scendiamo mi saluta, mi augura buona giornata e si va a sedere vicino ad una chiesa al centro di Roma. Felice di essere in Italia e di vivere grazie alla nostra elemosina.
Da un’altra parte d’Italia, nelle vicinanze di Caserta, c’è un’azienda di bufale. Il proprietario ha una storia complicata. E’ finito in mano agli usurai. Per pagare loro ha lasciato perdere ogni altra cosa , tanto che alcune banche ne hanno chiesto il fallimento, e poi un giorno ha deciso che non ne poteva più e ha denunciato gli estorsori e li ha fatti arrestare. Tra di loro anche il cugino del famoso Sandokan il boss di Casal di Principe. Per arrivare a questo è stato aiutato da sei indiani sik che gli sono rimasti al fianco senza troppo domandarsi a cosa andavano incontro. Loro lo aiutano nella gestione dell’azienda. Tengono pulite le bestie, che per loro sono sacre, gli danno da mangiare, le curano. Ma hanno anche curato ed accudito il loro padrone, se così lo si può chiamare, e lo hanno aiutato ad incastrare l’estorsore convincendolo ad entrare nell’ufficio dove i carabinieri avevano piazzato le micropsie. Sono loro che ti accolgono all’ingresso. Sono loro che ti scrutano, come ti passassero ai raggi infrarossi, prima di chiamare Roberto, il padrone. Sono una specie di guardie del corpo che non lo lasciano mai e anche adesso che le cose stanno riprendendo il corso normale, che le banche verranno pagate con il mutuo della Commissione antiracket, loro non mollano di un passo. Roberto dice sempre “nessuno del mio paese mi avrebbe seguito come hanno fatto loro”.
Queste sono le storie di ordinaria immigrazione del nostro Paese.Quelle che non balzano agli onori della cronaca perché, in questi casi, l’immigrato non commette nessun reato.