“E’ la prima volta che possiamo parlare liberamente di questa cosa, della ‘ndrangheta”. Così con poche e semplici parole alcuni ragazzi di un liceo della Calabria delle Serre inizia un colloquio fitto e serrato. Fatto di domande, di curiosità, di accuse ma anche di “confessioni”. Il proprio vicino di casa,“che è un boss ne sono sicuro”, e la sua statua di Padre Pio fatta perché tutti si fermino e si facciano il segno della croce. Il figlio del boss, compagno di studi, con cui dividere l’abituale rito del passeggio pomeridiano. Con una ragazza che angosciata dice “ ma io cosa posso fare? Non voglio passeggiare con lui….ma non ho il coraggio di fare niente. Rimango qui come se nulla fosse”. L’atto di accusa più forte è per i loro genitori “A casa se chiedo a mio padre di spiegarmi lui dice che non c’è niente da spiegare”. Si sentono esclusi. Loro vorrebbero ribellarsi ma sono frenati dalle loro stesse famiglie oramai abituate a “convivere” con i boss, i capibastone.
Una realtà, la loro, che parla già attraverso i luoghi, le case, le strade. Un costruttore una volta disse “ quando arrivi in un territorio guarda le case, come sono costruite, cosa hanno intorno. Sono la fotografia economica e sociale della gente che lo vive”. Basta entrare in alcuni paesi calabresi e vedere gli scheletri delle case, l’abusivismo dilagante, i teli di plastica alle finestre. Sono l’istantanea di una regione ferita nel suo profondo, nella dignità e nel fisico. Anche la difficoltà nei collegamenti sembra quasi volerla isolare, escludere.
Una situazione che non è solo calabrese anche se in questa regione “senti” la difficoltà anche solo a parlare di ‘ndrangheta. Una paura fisica. Una paura atavica. Una paura fatta a immagine della propria vita.
Ma anche i ragazzi siciliani, soprattutto quelli della parte occidentale quella della mafia “dura e pura”, hanno sempre timore a parlare, ad esporsi. Ad un convegno all’Università d Trapani su “donne e mafia” solo qualche studente, nessuna domanda. Un silenzio irreale e poi qualcuno ti sussurra che chi non ha partecipato lo ha fatto “perché è di una famiglia mafiosa” e il silenzio sembra quasi una forma di rispetto nei confronti del boss locale.
Ma anche Ostia, sul litorale romano, ha le sue paure, le sue reticenze che cadono quando soprattutto i ragazzi “sentono” che non li tradirai e così si aprono e ti fanno conoscere la presenza mafiosa sul litorale laziale. Le macchine bruciate. I genitori che non sanno che fare, come proteggere i figli e poi magari rinunciano alla piccola impresa, costata fatica e sacrifici, per non rischiare qualcosa di peggio.
E le stesse paure e timori si trovano a Monselice, in provincia di Padova, dove ti ascoltano, ti scrutano e poi piano piano il fiume in piena del racconto, delle storie anche di chi è dovuto fuggire dal Sud e con le nostre parole si sente riportato all’inferno.
Un filo conduttore unisce il viaggio di Malitalia da Casal di Principe, a Reggio Calabria, a Trapani, a Castglione della Pescaia, spiaggia Toscana frequentata da chi si sente “fuori” dal crimine. E come è bello vedere la terrazza sul mare riempirsi di giovani e anziani. Ed è bello vedere spuntare dietro la siepe le teste di chi vuole ascoltare magari senza farsi vedere…..Perchè il filo conduttore è la voglia di conoscere, di capire cosa sta succedendo. Perché tutti sanno che le mafie hanno cambiato pelle e si trovano tra noi nella vita di tutti i giorni: sono commercialisti,medici, ingegneri, bancari…..
Ma oltre la conoscenza l’altro filo rosso che unisce l’Italia del Friuli a quella della Sicilia è, con una frase di Corrado Alvaro, “l’inutilità di essere onesti”. Drammatica, profonda sensazione che governa il pubblico che ascolta le storie di Malitalia, che ci ha accompagnato a Termoli. Terracina, Alcamo o Forlì. Una sensazione tanto forte che spesso viene gridata, le facce si alterano per la commozione. E’ come vedere la loro anima accartocciarsi, spegnersi. Loro, le tante persone che abbiamo incontrato, vogliono ascoltare ed essere ascoltate. Sentirsi parte di un progetto. Non sentirsi soli a combattere il mulino dell’illegalità e della collusione. Non vogliono sentirsi diversi o “fessi” perché scelgono la via dell’onestà.
Vogliono poter parlare e non essere solo partecipi di una serata in cui qualcun altro è l’attore.
Ogni incontro ti regala una storia: amara o dolce non ha importanza. E’ un pezzo di quella Italia che non si arrende, che lotta anche contro le evidenze e che piano piano sta prendendo coraggio, forse quello della disperazione, ma sempre coraggio è.
E così uno scrittore, con un passato da bancario, racconta quando, direttore di una filiale di una cittadina ligure, viene portato a Napoli, nella casa di un boss, per un consiglio finanziario. Un segreto seppellito dentro di sé per quasi 20 anni. O il papà di un nostro collaboratore che vive adesso a Terracina, ma che viene dalla zona del casertano e che ha vissuto sulla sua pelle l’estorsione, l’intimidazione, la prevaricazione. Un mondo che aveva voluto dimenticare e che suo figlio ha riportato a galla. Ma adesso si sente dalla parte dei buoni, non si sente più solo.
O la storia di una giovane attrice richiamata nella sua terra, dopo l’omicidio di Francesco Fortugno a Locri, per preparare uno spettacolo da portare a Duisburg. Le trema la voce quando dice “ sono rimasta senza parole quando, in Germania, siamo stati ospitati in un albergo degli Strangio Pelle, quelli della faida, e la sera della prima erano lì tra le autorità a battere le mani”.
Un racconto che ha aspettato tre anni prima di uscire fuori. Lo ha raccontato la sera del 15 agosto proprio in terra di Calabria. Per dire che si può parlare. Che la parola, come diceva Ennio Flaiano, “convince, la parola placa”.