Cinquant’anni fa un sociologo americano, Edward Banfield, visitando l’Italia meridionale parlò di “familismo amorale” per evidenziare la tendenza del nostro Sud a privilegiare la famiglia alla collettività, i propri interessi a quelli dello Stato.
Le persone, familiari-amici-parenti vari del boss Tegano, che hanno gridato, urlato, “fatto voci” davanti alla Questura di Reggio Calabria, contro lo Stato e indicando il boss come “ uomo di pace” che ha fatto del bene a tanti sono la fotografia di quello che Banfield scrisse tanti anni fa. La “famiglia” prima dello Stato. Uno Stato trattato come “il malfattore” che arresta “un buono”. Gli sbirri, i cattivi, da deridere. Tutto questo in una città, in una Regione dove si è votato da poco e dove, secondo la Commissione Nazionale Antimafia, ci sono circa 18 eletti che “sfuggono” al codice etico che era stato approvato prima delle elezioni.
Gli uomini e le donne della criminalità parlano con parole e gesti: Tegano un vero capo vestito di tutto punto (riporta alla mente un boss mafioso, poi pentito, che racconta che il giorno del suo arresto il suo avvocato lo voleva far uscire in pigiama “giammai io sono un capo e vado in carcere da capo”), le donne, elemento sostanziale e fondante della criminalità, che gridano quasi una minaccia “ è un uomo di pace”. Cosa vuol dire: le cosche sono pronte a colpire lo Stato? Si sentono così forti da poterlo minacciare così, in pubblico davanti alle telecamere?
La società civile di Reggio Calabria si è fatta sentire solo a tarda sera e dopo molte polemiche. Eppure proprio a Reggio la settimana scorsa un professore di architettura dell’Università ha scritto una lettera che mette i brividi. Si chiede se e quanto abbiamo fatto, tutti, per offrire un concetto di legalità che possa essere accettato dalle giovani generazioni. Si chiede se si è troppo presi dalle beghe personali per rendersi conto di quanto sta succedendo…
E cosa sta succedendo? Che le nuove generazioni criminali (Tegano, appena arrestato, ha 70 anni!) frequentano le Università affinano la loro cultura imprenditoriale, economica per migliorare il “sistema” finanziario delle famiglie.
È di questo che dobbiamo parlare per dare voce ad un professore universitario che si interroga sulle proprie capacità, che ci pone dubbi. Per dare voce a quelle forze dell’ordine che a costo di grandi sacrifici continuano a lavorare per uno Stato che sembra così lontano da loro e che vengono “scherniti” come si fa con chi si è “macchiato” dell’oltraggio al “potere”, quello del familismo amorale.
Perché parlandone raccontiamo anche l’Italia che si batte contro i collusi e che, all’estero (al contrario di quello che dice il premier) viene apprezzata ed amata. Quell’Italia che ci permette ancora di amare il nostro Paese. Un’Italia fatta di uomini e donne che raccontano e vivono ogni giorno la discriminazione di essere “onesti”.
Parlarne permette di raccontare che in Germania si vendono itinerari legati all’associazione Addiopizzo e ai beni confiscati alle mafie.
Parlarne ci permette di dire che Don Ciotti e Libera hanno “esportato” la coscienza della legalità in tutta Europa e nel mondo diventando un esempio per milioni di persone: uno spot per l’Italia che “non bacia le mani”. Altro che esempio negativo e che pubblicità contro il Paese!
Parlarne permette di non sentirsi inutili in un paese anestetizzato dalla televisione e dalle dispute “ o con me o contro di me”, come se la vita fosse solo uno schieramento da una parte o dall’altra senza neanche approfondire il perché. Senza una minima capacità di critica, di ragionamento come se tutti avessimo perso la capacità di ragionare.
Parlarne è importante perché le mafie hanno capito molto bene che la parola è importante (Flaiano diceva “la parola ferisce, la parola guarisce”). E infatti anche gli appartenenti alle mafie scrivono libri, rilasciano interviste. Spiegano la loro vita, la romanzano, ne vendono la musica e le tradizioni (quasi fossero un semplice oggetto folkloristico) e spiegano così le ragioni della loro vita. Un modo subliminale (in un mondo che vive di questo tipo di messaggi) con cui ci vogliono dire che esiste una vecchia mafia che è in carcere o come mi disse il fratello di un killer “chi ha sbagliato deve pagare il suo debito perché i suoi figli abbiano una vita migliore”.
Figli che studiano nelle migliori scuole del mondo e che hanno in mano patrimoni, oramai ripuliti, e che, come dice Alberto Cisterna procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, possono parlare con la politica con la finanza con la faccia “pulita” di una nuova generazione che sembra lontana anni luce dalle coppole e dalle lupare.
La parola che, come hanno detto Al Gore e Roberto Saviano la festival del giornalismo di Perugia, è lo strumento, il mezzo, l’arma da utilizzare sempre più contro il crimine, i soprusi, le violenze.
La parola che non è una scoperta di oggi (pensiamo alle tragedie greche, pensiamo al “Viva VERDI” del Risorgimento, pensiamo alle parole di “Le mani sulla città” di Francesco Rosi) ma di cui dobbiamo riappropriarcene per non permettere a loro di poterla usare come e meglio di noi.
Dobbiamo parlare di mafie ma anche dell’Italia onesta che si oppone, quella che si fa domande, che non si arrende, che fa cultura e “non bacia le mani”, quella che non si riconosce nel “familismo amorale”.