È gennaio del 1996, da poco, circa un mese, è stata firmata la pace di Dayton e la ex Jugoslavia si frammenta in Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia. La popolazione è stremata, sfinita. Le case, le città sono distrutte e noi andiamo a portare un po’ di aiuti in una zona della Kraina, quasi un crinale tra bosniaci e croati. Un po’ più a nord c’è Sebrenica e a sud Spalato dove arrivano le navi militari l’unico filo che lega questa terra a tutto il resto del mondo. Ci aspetta il freddo, quello che ti entra nelle ossa, che supera le solette termiche degli scarponi da montagna, che passa oltre le piume delle giacche a vento, che ti taglia la faccia e ti gela le mani…
Non trovi un po’ di calore da nessuna parte, il povero albergo che ci ospita, a Livno, ha, fortunatamente, solo l’acqua fredda ma non ha coperte sufficienti. La cena è formaggio e un po’ di carne e per questa gente è stato uno sforzo prepararci un desinare così ricco. La mattina, dopo una notte passata a cercare di ripararci dal freddo coprendoci con pigiama, sciarpe e calzettoni, iniziamo un viaggio verso un villaggio ancor più isolato e attraversiamo campi abbandonati e desolati sotto una coltre bianca gelata e ci passano a fianco case bruciate, sformate dalle granate e dagli obici,senza tetto.
Ma sono lì a ricordarci cosa è la guerra, cosa è l’odio, la ferocia,la disumanità, il disprezzo, l’inferiorità. Attraversiamo un paesino che aveva 7000 abitanti e che ci mostra due soli indigeni, un gatto nero ed una gallina. Tutto intorno un silenzio irreale tra quelle case spettrali, con le finestre vuote come tanti occhi che ti guardano e ti trasmettano un orrore senza fine… e sulla strada sul prato un carro armato arrugginito e fermo con il cannone puntato verso chissà dove e chissà cosa e come bambini, presi dalla curiosità e dall’incoscienza, attraversiamo il prato, ci facciamo le foto intorno al simbolo della guerra.
Non pensi a nulla, pensi solo di riportarti una foto che ti faccia ricordare dove sei… e noi ce lo ricorderemo a vita dove siamo passati…. su un campo minato! Lo scopro nel secondo viaggio quando poi entrerò a Mostar e Sarajevo e il cuore non dimenticherà mai una collina trasformata in un cimitero pieno di croci di legno, tutte uguali semplici e che ti si piantano dentro come i chiodi della croce di Gesù.. e poi giri lo sguardo e vedi lo scheletro della meravigliosa Biblioteca di Sarajevo, il simbolo della multiculturalità, della integrazione, dei secoli della convivenza.
E come dimenticare il terrore negli occhi del mio autista croato a Mostar quando gli chiedo di accompagnarmi nella vecchia città musulmana: “non posso venire se io entro non esco vivo, mi spiace”. Mostar è una città intatta con una voragine centrale, la città vecchia con il suo ponte ad un’unica arcata un esempio di architettura e perizia artigianale. Quella voragine nasce perché serbi e croati non volevano più i musulmani tra loro e i loro cannoni hanno tuonato da un lato e dall’altro sino a che non c’è rimasto nulla del ponte e dei musulmani di Mostar… eppure questa gente ha sempre vissuto insieme,condiviso le dominazioni, il totalitarismo di Tito.
Cosa può succedere al tuo vicino che lo spinge a puntarti il fucile in faccia e fare fuoco? Cosa spinge un essere umano a usare la tibia di un suo simile per farne un flauto? Cosa spinge un cecchino a mirare su un bambino? Quale follia ha devastato questa terra e tutti noi? Te lo chiedi di fronte al foro di obice che si trova nella stanza dove dormi a Sarajevo. Te lo chiedi sulla strada verso Spalato, una via aperta in parte sul vecchio tracciato e in parte ricavata da quel che rimane di colline, case, campi… te lo chiedi perché hai amici serbi, croati, bosniaci e sono tutti splendidi e non ci può essere ragione alcuna alla devastazione che hai intorno… A pochi chilometri da questo buio c’è la luce accecante del mare davanti a Spalato e la passeggiata a mare della città dalmata è piena di soldati della SFOR che lasciano tensioni, paure, visioni lì dietro le colline. E mentre torno indietro dal mio viaggio la strada, il destino mi riportano al prato del carro armato e così scopro che la zona è stata recintata dai militari della forza multinazionale di pace e c’è una scritta “zona minata”.
E così il caso mi ha risparmiata. Il perché lo scoprirò quasi 10 anni dopo intervistando chi di professione fa lo “sminatore”: erano mine anticarro quelle su cui siamo passati quando, come bambini al luna park, volevamo fotografare la macchina da guerra. Eravamo troppo leggeri, non pesavamo abbastanza… Un nonnulla ci ha salvato e infatti la vita è un “nonnulla” e se hai visto i Balcani in fiamme sai che il tuo nonnulla è sacro, va difeso, amato, coccolato, rispettato e hai imparato anche quanto vale quello del tuo vicino.