(con la collaborazione di Marco Bova)
102 milioni di abitanti di cui il 70% sotto i 25 anni. 80 diversi gruppi etnici.
90 lingue diverse. Una superficie di 1.100.000 kmq, nessuno sbocco a mare, confina con Eritrea,Gibuti, Somalia, Kenia, Sudan e Sud Sudan. È l’Etiopia, paese oggi di fronte a una delle sliding doors della sua storia.
Un paese molto povero, molto arretrato anche nella capitale Addis Abeba dove le baraccopoli crescono a vista d’occhio anche nelle aree centrali della città. Una povertà che si tocca ancora di più con mano attraversando il paese, tra zone desertiche e le poche aree agricole dove la sussistenza è data da ossuto bestiame, da qualche piccola coltivazione, dalle piante di banani. Dove l’unico mezzo di trasporto sono gli asini. Un Paese che è il più esposto di altri al rischio AIDS. Dove sono milioni le vittime di questa terribile malattia e milioni gli orfani malati. Un posto dove anche bere un sorso d’acqua diventa rischioso e dove il 10% dei bambini muore prima dell’anno d’età a causa del contagio.
Un Paese che dopo 27 anni di governo del Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi (EPRDF) ad aprile 2018 ha designato Primo Ministro Abiy Ahmed, protestante figlio di un padre musulmano e di una madre cristiano-ortodossa, laureato in filosofia ed ex militare. Parla alcune delle lingue etniche del paese e questo gli permette un’interlocuzione diretta con i vari gruppi. Si presenta con una visione mistica tra pace e amore che richiama quasi Martin Luther King.
Abiy è il volto nuovo dell’Etiopia. L’Italia, l’Unione Europea e grandi player mondiali come Stati Uniti e Cina, scommettono su questo Paese e sulla nuova dirigenza che ha da subito cercato di dare una svolta sia a livello regionale, nazionale che internazionale. Addis Abeba è anche la capitale diplomatica dell’Unione Africana. Vi hanno sede le ambasciate e le organizzazioni di quasi tutto il mondo. Il Primo Ministro ha da subito cercato di farsi riconoscere come leader moderno : un leader continentale oltre che locale. Sul piano regionale da subito, nel suo primo discorso lunedì 2 aprile 2018, ha immediatamente teso la mano contro la nazione che per venti anni ha rappresentato il nemico: l’Eritrea ed ha aperto un canale privilegiato con il suo Presidente, Isaias Afewerki ( con la segreta speranza, secondo alcune fonti, di avere così uno sbocco al mare con il porto di Massaua, in alternativa a Gibuti).Le buone intenzioni, però, non sono state tradotte in risultati pratici tanto che nel mese di maggio gli eritrei hanno nuovamente chiuso le frontiere.
Tanto è forte la sua figura nell’area che Abyi Ahmed è stato inviato,nei giorni scorsi, in Sudan dall’Igad, l’autorità intergovernativa degli Stati del Corno d’Africa, per tentare una mediazione tra la giunta militare al potere dopo l’uscita di scena dell’ex presidente Omar al-Bashir e l’Alleanza per la democrazia e la libertà, cartello che riunisce tutti i gruppi di opposizione. Il compito è arduo perché non è solo una mediazione tra opposizione e militari, ma una questione politica per trovare un punto d’incontro tra le potenze che sostengono l’una e l’altra parte: conciliare Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto che sono dalla parte dei militari, e Qatar, Turchia, Iran che rovescerebbero il regime al potere, certamente non per metterlo in mano ai dimostranti.
Si è liberato del dossier Sud Sudan impantanato da anni : l’Etiopia ha lasciato spazi ad altri attori regionali come Uganda e Sudan dando l’idea di un leader che ha a cuore la stabilità regionale. Ma con il Sudan e l’Egitto soprattutto rimane il nodo della diga Gerd (Great Ethiopian Reinassance Dam), che appena terminata sarà la più grande d’Africa e la settima al mondo, situata a pochi chilometri dal confine col Sudan e sorge sul Nilo Blu, tra i maggiori affluenti del Nilo. L’Egitto ha evidenziato il timore di dipendere dall’Etiopia per l’approvvigionamento di acqua poiché il proprietario unico della diga è l’Etiopia che rivenderà agli altri paesi l’energia prodotta e che sarà,una volta a pieno regime, di 6.000 MegaWatt, una potenza pari a quella dell’intero corno d’Africa! Il 10 giugno del 2018 il presidente egiziano Al Sisi e il primo ministro Abiy Ahmed hanno siglato un accordo di più proficua e stretta collaborazione ma le problematiche rimangono sul tappeto soprattutto quelle sociali: la popolazione locale, per fare posto al grande lago – che sarà riempito in un arco di tempo che va dai 5 ai 15 anni e che potrà fornire circa 7000 tonnellate di pescato l’anno- sarà intanto privata della foresta che è fonte di cibo, piante medicinali e materiali di costruzione. Inoltre, l’attuazione del progetto ha portato a spostare oltre 20000 persone.
La costruzione della diga apre anche lo scenario economico-finanziario internazionale che opera in Etiopia. Il costo complessivo dell’opera è di circa 4,8 miliardi di dollari ed è finanziata in parte da banche cinesi (1,8 miliardi) e dal governo etiope (3 miliardi, il più costoso investimento della storia dell’Etiopia) mentre la realizzazione del progetto è stata affidata alla ditta italiana Salini Impregilo Costruttori.
La Cina ha azzerato gli interessi sul debito etiopico sino al 2018, ha realizzato la ferrovia che dal porto di Gibuti (dove hanno anche stabilito l’unica base militare al di fuori dei propri confini) arriva nella capitale Addis Abeba, fornendo così quello sbocco a mare che manca al Paese. I cinesi sono presenti nelle costruzioni delle grandi arterie e in grandi opere come il termovalorizzatore della capitale, il primo in Africa, che è stato costruito dall’impresa britannica Cambridge Industries e da un consorzio di società cinesi che include la Cambridge Industries Ltd (CIL) e la China National Electric Engineering Co (CNEEC). Un impianto capace di trattare 1400 tonnellate di rifiuti urbani al giorno al fine di produrre 185 GWora di elettricità all’anno. Fermo per alcuni mesi, dopo essere stato inaugurato ad agosto 2018, per “adempimenti contrattuali”,ha ripreso a funzionare all’inizio di maggio 2019.
I cinesi sono così presenti che mentre prima in Etiopia c’erano gli autoctoni e i “ferengi” (i bianchi) oggi a queste due figure si aggiungono i “cina” evidenziando così la loro massiva presenza nel paese, che non è altro che la porta di accesso per il continente africano.
E la Cina è presente nelle piccole manifatture nate in Etiopia perché qui il costo del lavoro è più basso del Bangladesh, dello Sri Lanka e persino del Kenya. Se in Cina un operaio costa 370 euro mese qui costa dieci volte di meno. E con il paese che vuole diventare un hub manifatturiero per l’Africa entro il 2025 si è consolidata la presenza delle aziende straniere del settore come H&M, Tommy Hilfiger, Calvin Klein, Levi’s, Guess”,Calzedonia.
Il governo etiope, per attrarre le aziende del settore ha concesso l’esenzione fiscale sui profitti per i primi 5 anni di attività e sull’importazione di macchinari, beni capitali e componentistica varia. Ma soprattutto le aziende trovano una manodopera – principalmente proveniente dalle aree rurali e senza alcuna formazione nel settore- a poco più di 20 euro al mese. Nella legge etiope non è previsto un salario minimo nel settore privato (per gli impiegati pubblici è di 420 birr al mese, circa 13 euro), i sindacati sono sotto stretto controllo governativo. È impossibile a qualsiasi organizzazione indipendente di monitorare le condizioni di lavoro a meno di non essere finanziata almeno per il 90% da capitali etiopi. A vantaggio dei giganti del tessile che, facendo uscire i loro prodotti dall’Etiopia, possono approfittare anche delle favorevoli condizioni commerciali concesse dagli USA ai produttori sub-sahariani attraverso l’African Growth and Opportunity Act (Agoa).
Molte delle aziende manifatturiere hanno trovato “casa” nel parco industriale di Hawassa, nella Great Rift Valley circa 300 km a Sud di Addis Abeba. 300 ettari, 23 mila occupati con una proiezione di 60 mila nei prossimi anni. Costo del parco 250 milioni di dollari. Qui ci sono insediate 22 compagnie straniere. Dei 23 mila occupati circa 15 mila sono donne, tutte provenienti dalle campagne circostanti. Alle prime luci del giorno si formano le file ai cancelli d’ingresso del parco. Donne e uomini che lavorano per circa 20 euro al giorno,con ritmi forsennati nei momenti clou delle lavorazioni e con periodi di vuoto assoluto. Molte, soprattutto le ragazze, non resistono ai ritmi imposti anche perché molte di loro non hanno alcuna pratica con questo lavoro. Una delle tante giovani impiegata in un grande capannone, dietro una macchina da cucire, dice che nel suo futuro vede “un aumento del salario e una continuità nel lavoro”. Parole subito stroncate dal direttore dell’azienda. Ogni possibile richiesta, anche sotto forma di speranza, viene subito messa a tacere.
L’altro grande parco, “Eastern Industry Zone” costruito 10 anni fa, è a pochi km da Addis Abeba a Duken piccolo paese di campagna, e ospita oggi 20 compagnie, tutte cinesi che, logicamente, sono tra i finanziatori dei parchi.
Intanto l’attivismo internazionale del Primo Ministro Abiy Ahmed continua e proprio in questi giorni la Banca Mondiale ha concesso un finanziamento di 350 milioni di dollari – 280 di credito e 70 di donazione- all’Etiopia per lo sviluppo delle aree pastorali dove vive circa l’11% della popolazione.
La situazione politica ed economica dell’Etiopia filtra anche dalla stampa che ha vissuto anni di difficoltà. Per il Primo Ministro Abiy Ahmed l’informazione ha sicuramente un ruolo rilevante nella società se uno dei primi atti è stato la liberazione di centinaia di prigionieri politici e giornalisti detenuti tanto che,per la prima volta negli ultimi 15 anni, non ce n’è più nessuno in prigione. Un segnale dello stato delle libertà in un paese a cui ha fatto seguito una riforma importante per la libertà dei media. Seguita poi da quella delle leggi sulla società civile e quella per l’istituzione di una nuova Commissione elettorale nazionale, affidata ad una ex leader di un partito di opposizione, più volte incarcerata in passato e oggi incaricata di preparare il sistema per la elezioni del 2020. A febbraio 2019, secondo l’agenzia di stampa Fana, il governo ha amnistiato 45.875 prigionieri politici o di coscienza dopo l’approvazione della legge in materia da parte della camera bassa del parlamento, lo scorso giugno.
Tutti passi importanti per un Paese per troppo tempo stretto prima nelle maglie della dittatura di Menghistu e poi nei 27 anni di governo EPRDF anche se i giornalisti ancora hanno paura a parlare apertamente del loro lavoro, della situazione politica nel loro paese. Non è possibile registrare, in voce e men che mai in video, una loro intervista. Segno che la strada è ancora lunga.
LA PRESENZA ITALIANA
Un capitolo a parte va dedicato agli italiani in Etiopia, presenti nel Paese già dal secolo scorso. Gli eventi dell’occupazione colonialista sono presenti ma non incidono sui rapporti istituzionali tanto che per la prima volta, dalla seconda guerra mondiale è stato firmato un accordo di cooperazione nel settore della difesa ( firmato ad aprile 2019 dalla ministra Trenta e dal suo omologo etiope).
Forte l’azione dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione alla Sviluppo che ha molti progetti che vanno dal microcredito nel settore agricolo e manifatturiero, all’assistenza nei progetti per la sanità, contro le mutilazioni genitali femminili e l’Aids. Un interessante progetto riguarda l’agricoltura, e nello specifico l’allevamento di bestiame da carne, nella regione dell’Afar: piccoli impianti fotovoltaici che permetteranno ai piccoli allevatori di macellare gli animali e di poterli conservare fino alla vendita.
E poi ci sono gli storici costruttori italiani come Vernero e Elmi che hanno in parte partecipato all’espansione edile di Addis Abeba. C’è la Salini Impregilo. Ci sono le aziende del manifatturiero come Calzedonia.
Ma l’Italia non è sola anche gli altri Paesi europei sono presenti con attività di cooperazione e accordi economici come i tedeschi che, secondo fonti istituzionali, hanno già sottoscritto un accordo con il governo etiope per un impianto di assemblaggio della Volkswagen.
Insomma l’Etiopia è di fronte ad una sliding door della sua storia ma è anche un’opportunità per molti Paesi, tra cui l’Italia, per essere presenti in quello che è da tutti considerato il continente del futuro.
(pubblicato su FocusonAfrica.it il 12 giugno 2019)