Giuseppe D’Avanzo

(di Enrico Fierro)

Chi dice che un giornalista, soprattutto se è diventato una “firma”, deve essere cinico, indifferente alle emozioni, si sbaglia di grosso. Giuseppe D’Avanzo era una grande firma ma non era affatto cinico. In un momento di sincero dolore per la scomparsa ingiusta e improvvisa di un collega che per la sua attività, gli articoli e i libri che ha scritto, la serietà che ha sempre ispirato il suo lavoro, a ragione può essere definito il migliore di tutti noi, mi piace ricordare un giorno di tanti anni fa, era il 1997 se non ricordo male. Albergo al centro di Tirana, la hall trasformata nell’incasinato quartier generale dei giornalisti di mezzo mondo arrivati per raccontare la crisi dell’Albania post-comunista e la guerra in Kosovo. Dalla strada si sente una voce bambina intonare “lasciatemi cantare, con la chitarra in mano, io sono un italiano, un italiano vero”. Ci affacciamo per vedere. Sulla scala dell’hotel un gruppo di scugnizzi albanesi, una bambina è isolata dagli altri e canta quel motivo ogni volta che vede passare un italiano. Vive così, presa a calci dai guardiani dell’albergo ed emarginata dagli altri piccoli straccioni perché zingara, “cigan”. Si chiamava Florinda e presto diventò la mascotte di quel gruppo di giornalisti italiani stranamente tutti con sangue partenopeo nelle vene. Peppe, senza tante chiacchiere, decise che l’avremmo adottata e così fu. Per i giorni della nostra permanenza a quella bambina furono assicurati pasti, vestiti e quei giocattoli che non aveva mai avuto, grazie al “pizzo” che quotidianamente Peppe ci imponeva e riscuoteva. Si può essere grandi e restare umani. E Peppe grande lo fu, per il suo stile, per la voglia di raccontare, analizzare, denunciare, usando sempre solo l’arma della scrittura. Non partecipava mai ai salotti tv, non aveva un sito internet, non navigava su Facebook. Iniziò negli anni Settanta a “La Voce della Campania”, un settimanale napoletano vicino al Pci di dibattito politico e battaglie. Peppe, ovviamente, preferiva quest’ultima mission. “Chiacchiere per la Valle dell’Ufita”, si intitolava uno dei suoi primi reportage del giugno 1976 sulle contraddizioni dell’industrializzazione nelle zone più interne della Campania. Era la gavetta, ed erano gli anni Ottanta a Napoli, camorra, terrorismo, malapolitica, stragi. Una fucina terribile per chi iniziava il mestiere, un fuoco che poteva forgiarti o bruciarti per sempre. Quando nel 1984 saltò in aria il rapido 904 e dietro quell’ennesima strage italiana cominciò ad affiorare l’alleanza tra fascisti, camorra, mafia e gli immancabili servizi deviati, Giuseppe D’Avanzo era già a “La Repubblica”. Ruppe le scatole a magistrati, poliziotti, raccolse notizie, mise insieme indizi, scoprì particolari e scrisse. E per questo finì in galera insieme ad un altro giovane cronista, Franco Di Mare, “L’Unità”. Peppe passò il Natale del 2005 nel carcere di Carinola, in isolamento, accusato di falsa testimonianza e reticenza. Non aveva voluto rivelare la fonte, come si dice in gergo. Scarcerato due giorni dopo Natale, disse poche parole: “Il giudice spesso non ha la consapevolezza dello scenario in cui un cronista lavora a Napoli”. Da quella prima inchiesta ad altre, Telekom, Niger-gate, il racconto delle mafie italiane e degli affari di Berlusconi. Articoli, commenti, prese di posizione anche ruvide. A chi lo conosceva poco, Peppe D’Avanzo appariva presuntuoso, pieno di sé e dei suoi successi. Un giudizio sbagliato. Peppe sapeva capire quando sbagliava ed era capace di riconoscere i propri errori. Anche recentemente, lui che con Attilio Bolzoni anni prima aveva scritto un libro pieno di dubbi  sulla pista mafiosa per l’omicidio di Mauro Rostagno (“Rostagno, un delitto tra amici”), ad aprile scorso, nel pieno del processo, andò a Trapani e intervistò Chicca Roveri. Straordinario “l’attacco”: “Chicca Roveri, la compagna di Mauro Rostagno, non ha avuto modo di apprezzare il rigore del giornalismo italiano. È questo il suo esordio: “Non riuscirò mai a capire la leggerezza con cui fate il vostro lavoro. Non capirò il silenzio che circonda il processo per la morte di Mauro”. Poi una lenzuolata per ripercorrere la pista mafiosa di quel mistero italiano. Un grande pezzo. Uno degli ultimi.