di Domenico Logozzo
Paolo Mieli, sul Corriere della Sera, descrive «l’Italietta intellettuale a libro paga del Duce». Tanti gli illustri personaggi dalla Aleramo a Pratolini, da Ungaretti a Vittorini, da Quasimodo a Brancati. La “lista dei postulanti” è lunga. E tra questi viene inserito anche Corrado Alvaro: «Per il cinema ci sono versamenti a Guelfo Civinini e Corrado Alvaro “per la creazione di un soggetto cinematografico circa la redenzione delle paludi pontine” (soldi a fondo perduto dal momento che quel copione non troverà “collocamento”)». Mieli ha preso spunto dalla “ricerca” dello storico Giovanni Sedita su “Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo” (sarà nelle librerie il 14 giugno, a 54 anni dalla morte di Alvaro, avvenuta l’11 giugno 1956 a Roma), per affrontare la questione delle elargizioni del Minculpop, rilevando «l’imbarazzo di tutti quelli che preferirono tacere sui loro rapporti con il potere politico». Non è la prima volta che viene tirato in ballo Corrado Alvaro.
Vecchia storia. È una “vicenda” che viene dal lontano passato. Leggiamo nella cronologia di “Itinerario italiano” curata da Pietro De Marchi: «Nel 1934 Alvaro aveva scritto un volume che gli era stato da molti rinfacciato come apologetico delle imprese del fascismo: “Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino” (Ist. Naz. Fasc. di Cult. Ed. di Novissima). Alle accuse nel dopoguerra replicò con grande chiarezza: “Lo scriverei anche oggi, se qualcuno bonificasse qualche cosa, chiunque fosse, essendo io legato al lavoro, alla terra,alla sofferenza umana”». C’è da credergli. Così come credeva nelle sue parole e nei suoi comportamenti il grande Indro Montanelli, che con Alvaro aveva lavorato al Corriere della Sera: «Era incapace d’inventare. E nemmeno giocava alla vittima: era quasi per tutti così, mi disse, al suo paese. Ho sempre sentito dire che Alvaro fu, alle sue prime armi di scrittore, aiutato con qualche sussidio dal ministero fascista della Cultura popolare, il famoso Minculpop, e non mi stupirei, né tantomeno mi scandalizzerei, se fosse vero. Quell’organo istituito soprattutto per controllare e, all’occorrenza, censurare, aiutò moltissimi giovani a sbarcare il lunario commissionandogli qualche lavoro d’occasione. Ma non ho mai saputo che ce ne siano stati di Alvaro, oltre tutto incapace di chiedere favori ».Questo Montanelli scriveva nella storica “Stanza”, rispondendo ad un lettore calabrese. Paolo Mieli oggi sottolinea:«Più che i soldi ricevuti da questi scrittori e artisti, il libro di Sedita analizza quel che scrissero per ottenerli. C’è Vincenzo Cardarelli che chiede a Galeazzo Ciano una “sovvenzione fissa”: “Le circostanze mi hanno messo talvolta nella necessità di ricorrere alla generosità del Duce. Non so più ormai da quanti anni duri la miseria in cui mi dibatto, solo un soccorso non momentaneo potrebbe mettermi a riparo”. Dello stesso tenore le lettere di Salvatore Quasimodo (“l’urgenza di essere aiutato, in qualsiasi modo, interessa nel vivo i più elementari bisogni quotidiani di vita”) e di Libero de Libero (“un aiuto mensile, sia pure modesto, da parte del ministro della Cultura popolare, che già di tanto in tanto mi assiste, mi libererebbe da tanti vincoli e dalle angustie”)».
Ma c’è da ricordare che Alvaro, lasciando il Corriere della Sera nel 1919, ad un amico che lo invitava a conoscere Mussolini, disse: «Non ci vado,perché non mi piace quello che fa e perché secondo me è un uomo senza avvenire». Deciso. Fin da giovane. Rileggiamo quello che scriveva nel 1927: «Fa una certa impressione avere giuocata la propria vita diggià, nella giovinezza. Bisogna scansarsi, farsi piccolo, non trovarsi sulla strada di nessuno. Penso di rifugiarmi al mio paese dove non si è costituita nessuna sezione del partito, perché la camicia nera da noi si porta soltanto per il lutto grave. Mio padre non vede volentieri questo ritorno: sono partito per lottare con la vita e non posso tornare vinto, dando ragione all’invidia dei nemici. Poiché mi chiedono una dichiarazione sul mio passato, per iscritto,dichiaro di aver partecipato alla lotta dell’opposizione come chi, stando in una casa assediata, la difende, e che questo diritto mi era concesso dalla costituzione». Sempre chiaro nei concetti. Un autore che merita rispetto. E grande attenzione. Soprattutto in Calabria. Nel 1933 Alvaro esprimeva questi giudizi sul fascismo: «Non penso affatto che sia un movimento nazionalista e patriottico.Secondo me, è un tentativo di europizzare l’Italia. C’è il culto del mito nazionale, e non per approfondire una tradizione,giacché di fatto tutte le epoche italiane sono messe in discussione a partire dal Risorgimento,ma per adeguarsi agli altri Paesi d’Europa, e in ritardo, mentre forse l’epoca ne è passata, come col colonialismo. È una finestra aperta sul’Europa, ma in senso provinciale. E la manifestazione del complesso di inferiorità della classe media italiana».
Ma ritorniamo ad Indro Montanelli ed ai suoi rapporti con lo scrittore calabrese:«Di Alvaro, non posso dire di essere stato un grande amico per due motivi. Anzitutto perché c’era, tra lui e me, una notevole differenza di età. Eppoi perché lui non era facile alla confidenza e alla familiarità.Nato in una famiglia del profondo Sud calabrese, una volta mi raccontò di essere cresciuto a una stretta dieta di pane e olive. E l’unica cosa che questo passato gli aveva lasciato addosso era la paura che a lui e ai suoi figli il pane e le olive venissero a mancare.La nostra amicizia nacque per corrispondenza quando, relegato in Estonia come “lettore”d’italiano all’Università di Tartu, un editore locale mi chiese se potevo consigliargli un romanzo italiano da tradurre in quella impossibile lingua. Gli dissi senza esitare:“Gente in Aspromonte”, e presi incarico di comunicarlo all’autore e di fargli la prefazione.Alvaro me ne fu gratissimo.Quando tornai a Roma venne subito a trovarmi, e mi chiese come mai avevo consigliato quel libro suo. “Perché -dissi – non lo reputo da meno de ‘I Malavoglia’ di Verga”. Mi guardò incredulo, ma capì che lo avevo detto sul serio. M’invitò a casa sua, una casa che, come mobilio, sembrava spiantata da quella della sua casa calabrese, tanto era agreste e disadorna (“Speriamo – pensai – che non tratti anche me a pane e olive”, ma ci mancò poco). Poco tempo dopo,uscì il suo “L’uomo è forte”, il romanzo che, svolgendosi in un Paese a regime comunista, sembrava implicarne una condanna in gloria di quello fascista.
Nulla di più cretino. Era, pura e semplice, la condanna del totalitarismo di qualsiasi colore fosse: certo, non poteva attribuirgli quello nero. Poco dopo fu ingaggiato dal Corriere della Sera dove io l’avevo preceduto di qualche mese, e il cui direttore, Borelli, era anche lui calabrese. Fu lì che scrisse gli “Itinerari italiani”, un ritratto esemplare del nostro Paese. Non scriveva con facilità. La sua sorvegliatissima e scultorea prosa non faceva nessuna concessione a vezzi e artifici letterari.Per un articolo lavorava per giorni e giorni, come se considerasse la fatica un coefficiente d’obbligo, e forse anche con la paura di essere licenziato e di non poter portare a casa nemmeno pane e olive. Di carattere somigliava al suo fisico piccolo di statura, tozzo e compatto come certe figure etrusche. Gli erano rimaste addosso le stigmate del contadino meridionale, e non faceva nulla per nasconderle. Rimase molto stupito quando al “Bagutta”, dove lo condussi una volta a cena, tutti mostrarono di sapere chi era Alvaro e lo accolsero festosamente. Nemmeno a questo era abituato, anche perché non gli era costato nessuna “fatica”».
Nel 1943, in seguito all’occupazione di Roma, colpito da mandato di cattura, Alvaro fu costretto a rifugiarsi a Chieti, sotto il falso nome di Guido Giorgi. Per poter vivere, dava lezioni di inglese. In “Quasi una vita” si sofferma ampiamente sul periodo abruzzese.
Il giorno della liberazione di Chieti, con i paracadutisti italiani tra i primi ad arrivare il 9 giugno 1944, Corrado Alvaro scriveva: «Ricoverato e protetto da una famiglia di gente del popolo, dopo traversie e tradimenti, che non si è mai spaventata di sapermi ricercato dalla polizia,e che non si è accorta che destavo il terrore dei borghesi perbene che sospettavano di me, compatito da una bambina,mi domando perché non ho tentato di dominare la sorte prendendo l’iniziativa, anziché adattarmi a subire. Un contadino che avevo conosciuto ad Ari mi viene a trovare e mi saluta per nome e cognome dicendomi:“Ho sempre saputo chi eravate voi”. Costui, con una grande famiglia, sfrattato dalla città e sul punto di essere deportato, veniva spesso da me a confidarmi le sue pene. Mi mandò anche una guida per passare il fronte, ed eravamo già d’accordo. Senonché la “compagnia” precedente alla mia fu in parte catturata, la guida rimase dall’altra parte,e il fronte fu impossibile passarlo. Misuro che questo brav’uomo per ben due volte avrebbe potuto trafficare la vita: la prima offrendomi in iscambio per essere lasciato coi suoi la seconda quando furono offerti compensi a chi denunziasse gente sospetta come me e che tentasse di passare le linee».
Il positivo pensiero di Alvaro verso il generoso contadino abruzzese esalta il valore della riconoscenza e del ricordo. Il buon ricordo. Per troppo tempo è rimasto nell’oblio. E al lettore calabrese che dieci anni fa gli scriveva per sottolineare la facilità con la quale i grandi vengono dimenticati, per elogiare l’attività della Fondazione intitolata ad Alvaro e per auspicare la completa e doverosa rivalutazione dello scrittore «studiato dai giovani spagnoli,ma ignorato da quelli italiani», il grande Indro rispondeva: «Chi ricorda chi, in Italia? Questo è un Paese senza memoria, dove l’unica cosa da fare è cercare di non morire perché chi muore (fatte salve la solita mezza dozzina di sacre mummie:Dante, Petrarca eccetera, che nessuno legge) è morto per sempre. Èun Paese senza passato, il nostro, che non accumula né ricorda nulla. Ogni generazione non solo seppellisce quella precedente, ma la cancella. Ecco perché non credo alla possibilità di un rilancio di Alvaro, ma auguro con tutto il cuore alla sua Fondazione di trovare i mezzi necessari a tenerne in vita il nome.Sia pure per pochi intimi». Un vecchio appello di un grande della storia d’Italia per un grande della storia della Calabria, che oggi più di ieri va onorato. Uno scrittore che non tollerava ingerenze nel suo lavoro e che per questo aveva lasciato incarichi prestigiosi. Corrado Alvaro, oltre ad essere stato inviato speciale di grandi testate e direttore di diversi giornali, ha guidato per un breve periodo anche il giornale radio della Rai.
Nel gennaio del 1945 il commissario dell’Eiar Luigi Rusca, liberale ed antifascista, decise di cambiare il nome dell’ente (nasceva così l’odierna Rai) e al vertice del giornale radio nazionale chiamò Corrado Alvaro «antifascista, perseguitato dai nazifascisti e non iscritto ad alcun partito politico». Questo per dare il senso reale del «rinnovamento e dell’indipendenza di abbandonare la prestigiosa poltrona, con questa lettera: «Caro commissario, tu mi avevi invitato a dirigere un giornale radio indipendente, libero di informare il pubblico democraticamente, e che soltanto nei grandi problemi di interesse nazionale non agisse in contrasto col governo. Ho dovuto affrontare, nei pochi giorni del mio lavoro, inopportuni interventi che miravano a limitare o ad annullare proprio questa libertà di informazione. In ultimo poi, tu e uno dei nostri principali collaboratori, vi siete impegnati acché io ricevessi, ogni sabato, dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, indirizzi e suggerimenti di massima. Il nostro collaboratore, che da tempo sostiene la necessità di una radio priva di sue fonti di informazione autonome e limitate a quelle ufficiose ed ufficiali, ha posto la scelta fra lui, che gode della fiducia della Presidenza del Consiglio, e me, che ho solo le mie convinzioni in fatto di radio in regime di democrazia, cioè libere. Su di esse non posso transigere e perciò rinuncio all’incarico affidatomi dalla tua fiducia?». La dignità e la libertà di decidere, contro ogni forma di limitazione della corretta informazione. Che grand’esempio!