Giornalismo 2.0, infotainment, giornalismo da talk, giornalismo da blog. Tutti, oggi, hanno la loro infallibile ricetta per tentare di rivitalizzare un mestiere in crisi profonda. Personalmente di ricette nuove non ne ho, conosco quelle antiche, so quali devono essere i ferri del mestiere da usare. Curiosità, voglia di conoscere i fatti direttamente e di non farseli raccontare dagli altri, buoni piedi per lunghe camminate, capacità di osservare luoghi e persone. Una guerra puoi raccontarla facendo il pieno delle notizie “ufficiali” e ricavandone una sintesi, oppure puoi andare nei posti, parlare con uomini, donne e bambini, ascoltare le loro storie di disagi e tragedie, scrutare le loro vite. Ma sopra ogni altra “regola” ce n’è una: il cronista non è mai un protagonista, gli attori del dramma che osserva sono altri. Al giornalista tocca solo documentare. Con coraggio, umiltà e rispetto degli esseri umani. Solo così renderà un buon servizio al lettore. Ecco, noi, Laura Aprati,Marco Bova e il sito Malitalia, questo abbiamo fatto. Raccontare, con scritti, filmati e foto, l’immenso dramma della guerra.(Enrico Fierro)
Una donna, avvolta nel suo burqa integrale, nero come la notte, cammina nella desolazione del villaggio di Hammam Al Alili, a pochi chilometri da Mosul Ovest.
Il villaggio è stato liberato nell’attacco a Mosul Est e si trova a sud della città. Da qui è partito l’attacco alla parte ovest. Qui ha sede il quartier generale delle truppe irachene che, con il sostegno degli americani, sta sferrando l’attacco conclusivo al Daesh sul fronte di Mosul.
Tutto il villaggio è stato trasformato in una zona militare. Molte case sono state requisite ed adibite a caserme.
Nelle vicinanze anche uno degli ospedali di Medici Senza Frontiere per i feriti più gravi che dopo la stabilizzazione partiranno per Erbil o altri centri.
A Mosul Est invece l’ospedale americano.
La cittadina che prima della guerra, aveva circa cinquantamila abitanti, oggi ne conta oltre 100mila con i due campi per gli sfollati che arrivano in pullman dalla città assediata. A fianco del primo campo se ne è aggiunto uno nuovo che ospita circa 60mila persone e l’UNHCR (Alto Commissariato per i Rigufiati) sta già approntando nuove tende dove poter ricevere una parte dei 400 mila sfortunati rinchiusi nella medina, la città vecchia, ancora in mano al Daesh.
Si combatte casa per casa dopo che i bombardamenti di marzo hanno provocato centinaia di vittime tra i civili. Una guerriglia cittadina, senza esclusione di colpi. La popolazione vive barricata in casa per evitare i colpi incrociati dei cecchini o di finire nelle mani dei terroristi che li utilizzano come scudi umani. Non c’è acqua ( se non in alcune zone che vengono rifornite dalla Organizzazioni Internazionali), né cibo.
Una bambina esce timidamente dalla sua casa, le offrono una caramella. Per lei è come un pasto intero.
Il senso della vita ha dimensioni diverse in questa città spettrale, devastata dai colpi di mortai e cannoni. Il minareto della moschea di Al Nuri si staglia sulle case distrutte. Sulla sua punta ha sventolato per due anni la bandiera nera dell’Isis. Oggi segna la trincea da superare per sconfiggere definitivamente lo stato del terrore.
I pochi civili che escono dalle case cercano qualcosa tra le rovine . I soldati iracheni quando è possibile offrono un po’ di cibo e acqua, ma non basta. Chi è nell’inferno di Mosul ha fame e sete, bisogno di medicine e letti sicuri. Uomini, donne, bambini che da troppo tempo convivono con la paura e la guerra, è quella l’unica “normalità” che conoscono. La loro speranza è di riuscire a raggiungere un campo profughi. E a quella si aggrappano con tutte le forze, le poche che rimangono.
Lo scontro tra i soldati iracheni e i terroristi del Daesh è spietato. Colpo su colpo, uomo su uomo, finestra per finestra. I boia del terrore si dichiarano pronti a tutto per ottenere le “vergini” che promette Maometto, gli iracheni hanno le loro certezze: presto arriverà la vittoria.
E’ anche una guerra psicologica di resistenza tra uomini che parlano la stessa lingua, venerano lo stesso dio. Ma si odiano. In una tranquilla normalità del terrore.
Vediamo la casa dei cecchini iracheni in uno dei palazzi vicini alla medina. Due stanze. In una si vive con un braciere improvvisato per scaldarsi, materassi e coperte gettati per terra. Questa è la vita. Nell’altra si inquadra il nemico e si spara. Dai buchi nelle pareti potenti cannocchiali sui fucili da sniper puntano il nemico, il cecchino prende la mira. Spara. Uno in meno. Così da giorni. E’ una guerra lenta, a piccoli passi, di trincea.
Intanto dalla città, ogni giorno, escono migliaia di persone. Vengono raccolte su autobus del governo e portati nei campi di Hammam Al Alili. Alcuni si sono sistemati alla bene e meglio fuori dal campo ufficiale. Gli altri vengono portati dentro un recinto, hanno un pezzo di carta con un numero e chiedono a chiunque che fine faranno. I bambini si accoccolano per terra, giocano, nonostante tutto. Una signora è scappata con la figlia e il marito è rimasto a Mosul, un’altra ha perso tutto ma dice “Grazie a Dio sono viva e questo mi basta”.
Ad oggi dalla città sono uscite circa 250mila persone.
Ma la vera emergenza riguarda la quotidianità. Dal 19 febbraio, l’ospedale di Medici senza Frontiere ha accettato 1400 pazienti. L’80% codici rossi ( ferite che richiedono operazioni chirurgiche urgenti) e gialli ( fratture). I traumi più frequenti sono da armi da fuoco, esplosioni, mortai, schiacciamento (i muri di una casa che ti crollano addosso). Moltissimi i casi di malnutrizione tra i bambini.
Tante le ferite invalidanti, soprattutto tra i bambini, che rappresentano il 20% dei ricoveri mentre il 40% sono donne.
All’interno della città ci sono cliniche mobili che stabilizzano i feriti gravi, ma non possono operare e quindi i pazienti vengono trasportati a 30 minuti dalla città. Qui vengono assistiti i più gravi, quelli che se non soccorsi entro un’ora rischiano la vita. Gli altri vengono distribuiti negli altri ospedali tra Erbil e dintorni.
Nella città del Kurdistan ha riaperto l’ospedale di Emergency, lasciato agli iracheni dal 2004, e riaperto a febbraio. La situazione era gravissima: infezioni ospedaliere all’80%, poca igiene, personale scarso. A oggi la situazione è nettamente migliorata anche se gli arrivi ogni giorno sono tanti soprattutto per quanto riguarda la fascia d’età sotto i 15 anni. Bambini che hanno perso i genitori mentre fuggivano oppure feriti durante i bombardamenti di marzo. Una ragazza ricorda il momento in cui un uomo del Daesh le ha puntato il fucile contro e le ha sparato. Nei suoi occhi ancora il terrore di quel momento.
C’è anche chi ha cercato di uccidersi, come l’uomo, già invalido dal 1998, che ha cercato di sparasi perché sopraffatto dalla disperazione.
Ma crea ancora più apprensione quello che potrà succedere tra poco nei campi quando le temperature saliranno oltre i 30 gradi sino ad arrivare ai 50 dei mesi estivi. Mancano strutture sanitarie all’interno che possano aiutare i rifugiati nella quotidianità (un parto, una gastroenterite, una cardiopatia, la pressione alta). L’onda dell’emergenza sta facendo dimenticare che oltre i feriti ci sono tante persone che hanno bisogno di assistenza, di cure. E di cibo. Le ONG internazionali fanno i salti mortali per riuscire a distribuire il cibo. Ci sono loro e piccole organizzazioni come FOCSIV che ogni giorno, nei tanti campi che da Mosul arrivano fin verso Kirkuk, distribuiscono i pacchi alimentari: 10kg. a famiglia. Una goccia in un mare di fame e sete.
(pubblicato su www.malitalia.it e www.malitalia.globalist.it)