(di Andrea Meccia da Agoravox)
Diego Armando Maradona ha ospitato nel ritiro della nazionale argentina in Sudafrica Estela De Carlotto, Presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo (Nonne di Piazza di Maggio), associazione argentina in difesa dei diritti umani candidata al premio Nobel per la pace. Nel 1978, durante i mondiali di calcio svoltisi in Argentina, Maradona era una promessa del calcio nazionale, ma il tecnico Menotti lo lasciò a casa. In quei mesi Estela de Carlotto cercava disperatamente verità e giustizia per sua figlia Laura, sequestrata dai militari argentini nel novembre del 1977, quando era incinta di tre mesi. In Argentina si era instaurata da due anni una feroce dittatura che eliminava gli oppositori politici con il metodo della sparizione. Durante quel mondiale, strumento di propaganda nelle mani del regime, fra il calcio e i diritti umani si giocò una macabra partita. L’incontro e l’abbraccio fra Diego e Estela potrebbe aiutare a fare luce su quel periodo ancora troppo buio?
Nel giugno del 1978 Estela era una insegnante bella ed elegante, sposata con Guido Carlotto, un industriale chimico di origine italiana. Sua figlia Laura aveva 23 anni, studiava Storia all’Università de La Plata, militava nella “Gioventù Universitaria Peronista” e in quei giorni avrebbe dovuto mettere al mondo un bambino. Ma dal novembre del 1977, di Laura non si avevano più notizie. Era scomparsa nel nulla come altre migliaia di militanti politici. In Argentina c’era una dittatura, celata sotto il nome di “Processo di riorganizzazione nazionale”. Il 24 marzo del 1976 il generale dell’esercito argentino Jorge Rafaél Videla, l’ammiraglio della marina Emilio Eduardo Massera (iscritto alla Loggia P2) e il brigadiere dell’aeronautica Orlando Ramón Agosti avevano assunto il potere con un colpo di Stato. Nel giugno del 1978, in Argentina sarebbero arrivate centinaia di giornalisti da tutto il mondo. Per Estela e le altre mamme in cerca dei loro figli desaparecidos, c’era la possibilità di far sentire al mondo intero un grido lacerante di dolore e di disperazione.
Nel giugno del 1978 Diego Armando Maradona aveva quasi 18 anni, capelli folti, classe ed energia da vendere. Lo chiamavano Pelusa. Era già un piccolo dio del calcio, giocava nell’Argentinos Juniors ed era nel giro della nazionale maggiore. Di questa massa di capelli ricci in Argentina si parlava già da tempo. Qualche anno prima una troupe televisiva andò a scovarlo dove viveva con la sua numerosa famiglia, a Villa Fiorito, a Sud di Buenos Aires. Lo fecero palleggiare davanti a una telecamera e misero un microfono davanti a quelle labbra carnose e ben designate. «Il mio primo sogno è giocare un mondiale, il secondo è vincerlo», affermò senza troppe esitazioni quel bambino che con il pallone scriveva poesie d’amore. E l’occasione di realizzare quel sogno si stava presentando pochi mesi prima di compiere 18 anni.
Il 1° giugno infatti, nello Stadio Monumental di Buenos Aires, il Presidente Videla inaugurò «sotto il segno della pace» l’Undicesimo Campionato Mondiale di Calcio. La manifestazione sportiva fu una macchina propagandistica incredibile nelle mani del regime. Non ci sarebbe stata occasione migliore per diffondere nel mondo, l’immagine di un Paese in cui non venivano violati i diritti umani e non venivano commesse violenze. Mentre il giornalista José Maria Muñoz, el Gordo, esclamava: «Noi argentini siamo giusti e umani», donne con un fazzoletto bianco sulla testa cercavano di attirare su di sé le attenzioni della stampa straniera. «Per favore voi siete la nostra ultima speranza», dicevano agli inviati stranieri che assistevano alla loro marcia nella Plaza de Mayo, davanti la Casa Rosada, la sede del governo.
L’Argentina si presentò con una squadra forte e ben assortita e arrivò in finale non senza destare sospetti, soprattutto dopo aver liquidato nella seconda fase il Perù per 6 reti a 0. Il 25 giugno, sempre nel Monumental, un orgoglioso e soddisfatto Videla consegnava nella mani del capitano Daniel Alberto Passarella, roccioso difensore dallo sguardo duro e con il vizio del gol, la Coppa del Mondo. L’Argentina era per la prima volta campione. Aveva battuto per 3 reti a 1 la fortissima Olanda, l’Arancia Meccanica che praticava il calcio totale. Il comunista Luis Menotti, detto el Flaco, aveva guidato la selección albiceleste alla vittoria, lasciando a casa il talento di Villa Fiorito, ritenuto troppo giovane e inesperto per affrontare un mondiale.
A meno di un chilometro dallo stadio del River Plate, la dittatura torturava e ammazzava i dissidenti politici. Sulla lunga e larga Avenida del Libertador, nel quartiere di Nuñez, sorgeva il regno di Emilio Massera, la ESMA (la Scuola di Meccanica della Marina), divenuto uno dei luoghi simbolo della tortura e della repressione. Le grida di gioia del popolo che esaltavano Kempes e compagni, seppellivano le grida di dolore dei detenuti politici.
Il 26 giugno, Laura Carlotto diede alla luce un bambino in un ospedale militare di Buenos Aires, dopo oltre sette mesi di prigionia. Fu madre solo per qualche ora. Il bambino le fu portato via immediatamente e due mesi più tardi fu uccisa dai militari dell’esercito. Estela da quel giorno è nonna, ma fino ad oggi non ha mai potuto accarezzare suo nipote. Quel bambino oggi ha 32 anni, non conosce i suoi veri familiari e non conosce la sua terribile storia.
Pelusa tentò di riprendersi la sua rivincita nel mondiale del 1982, ma gli andò male. Tutt’altra musica nel 1986, quando guidò l’Argentina al secondo successo mondiale, nei Campionati del Mondo del Messico. Con i suoi incredibili gol all’Inghilterra (uno segnato con la mano, l’altro dribblando mezza squadra), restituì orgoglio a un popolo ferito dopo la guerra contro gli inglesi per il possesso delle Isole Malvinas, diventando uno degli uomini più famosi al mondo.
Nel giugno del 2010, 32 anni dopo il “mondiale della vergogna”, Estela De Carlotto, sempre bella ed elegante, è la Presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo (Nonne di Piazza di Maggio), l’associazione che infaticabilmente va alla ricerca dei bambini nati durante la prigionia delle loro madri. Diego sta per compiere mezzo secolo, ha ancora capelli folti, una barba ingrigita qui e là, porta un orologio per polso e lo accompagna tanta voglia di stupire il mondo. Il calciatore (ex) e l’attivista per i diritti umani lottano ancora per cose diverse ma lo spirito dei mondi che rappresentano oggi non è più così lontano. Almeno in Argentina. Diego e Estela vogliono entrare definitivamente nella storia.
Maradona siede sulla panchina della selección in questi mondiali sudafricani e vuole baciare la Coppa del Mondo anche da allenatore. Estela vuole condurre le Abuelas a Stoccolma, per aggiudicarsi il Nobel per la Pace. I due si sono incontrati e si sono abbracciati davanti ai fotografi nel ritiro sudafricano della nazionale argentina. «Tutti noi argentini vogliamo sapere la verità», le ha detto Diego anche a nome della squadra. «Nel ’78, piangevamo ad ogni gol. Questo mondiale invece ci riempie di speranza», ha risposto Estela. Il calcio in Argentina ha giocato una macabra partita contro i diritti umani nel 1978. La foto che immortala questo abbraccio potrebbe chiuderla? Il mondiale può e deve fare da cassa di risonanza a quest’immagine destinata a fare storia. Comunque vadano le cose.